IL RISPETTO DEL LAVORO

Nella mia esperienza con il mondo del lavoro, ho conosciuto molte persone che odiano la propria occupazione, non tanto per ciò che fanno ma per non poter decidere come farlo.
Sembrerebbe quindi che la facoltà di decidere come svolgere le mansioni obbligate ci dia libertà, ma qui c’è un inganno.

Oggi il lavoro non si propone più come schiavitù ma come mezzo di emancipazione, le macchine hanno preso il posto degli schiavi (benché siano tuttora presenti diverse forme di schiavitù umana) e l’uomo lavoratore si trova a metà strada tra lo schiavo e il suo padrone.
Ma se allo schiavo non si richiede altro che ubbidienza, al lavoratore viene chiesta una sottomissione partecipata, dunque dell’uomo si vuole anche l’anima, e i training motivazionali finalizzati a ciò, invece di emancipazione stanno diffondendo parecchia sofferenza.
Alla luce di questa sommaria analisi, cosa posso consigliare?

Chi vive in uno stato di necessità può fare poche scelte ma la più importante risorsa su cui fare affidamento si trova nella franchezza di questa condizione e nel conseguente rispetto per il risultato del proprio lavoro, in quanto oggetto mediatore del rapporto con sé.
Questo rispetto è la distanza che conserva l’ordine delle relazioni, infatti le innovazioni avvengono trasgredendo il rispetto (a vantaggio di alcuni e svantaggio di altri).
Oggi si cercano innovazioni organizzative che, attraverso la mitologia del dipendente “imprenditore di se stesso”, impongono la condivisione paritetica delle responsabilità ma non del potere, con la prospettiva che, grazie allo spirito imprenditoriale, un giorno anche il dipendente conquisti quel potere. Si tratta però di una favola populista che, nella maggior parte dei casi, non porta al potere promesso ma toglie l’ultima cosa che ancora rimaneva al lavoratore, il rispetto.
Invece, proprio quando il lavoro mette distanza, le figure di potere sono costrette a fare i conti con quel rispetto.

Tutto ciò mi fa venire in mente un ricordo legato al mio caro nonno, il quale, pur avendo a malapena conseguito la terza elementare, era riuscito a creare un’impresa di successo.
Al suo funerale gli operai insistettero per portare la bara sulle loro spalle, impedendo lo svolgimento di questo compito a noi nipoti, che ci eravamo avvicinati con la stessa intenzione.
Avevano, come mio nonno, forse la terza elementare, il loro lavoro era faticoso e umile. Si trattava insomma delle sole persone che, secondo Pasolini, valga la pena conoscere, e con le quali io ho avuto la fortuna di passare parte della mia infanzia.
Quegli operai quel giorno mi hanno insegnato una lezione importante, hanno messo la giusta distanza tra me e loro, imponendomi il rispetto.
Questo è ciò che nessuno ci può togliere, neanche se siamo schiavi.

Immagine tratta dal film “La classe operaia va in paradiso”