“Arbeit macht frei”.
Il lavoro rende liberi.
Non è il titolo del codice etico di una emancipata fabbrica tedesca, ma l’insegna in ferro battuto alla entrata del lager di Auschwitz.
Si tratta dell’opera di un fabbro polacco (Jan Liwacz) che, con i pochi mezzi disponibili, realizzò il magistrale sipario di quell’atroce teatro di violenza.
Primo Levi racconta di un altro lavoratore ad Auschwitz, un muratore italiano che “…detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale.”
Infatti, lo “arbeit” di Auschwitz non chiede che i muri vengano fatti dritti e solidi, ma che vengano fatti e basta.
È “Il lavoro senza scopo…[che]…provoca sofferenza e atrofia”, ci dice Levi.
Quindi Liwacz, obbligato a costruire il proprio strumento di tortura, da senso all’insensato nel “lavoro ben fatto”.
In quella insegna ben fatta, la semiotica della vittima si ribella alla semantica dei carnefici, e lo fa proprio compiendo bene il suo compito di comunicare, con crudele ironia, a chi entrava, che si sarebbero liberati dalla schiavitù solo lavorando fino alla morte.
Poi, nel dopoguerra, il lavoro seriale, privato del segno creativo individuale, si sviluppò attraverso gli stessi principi dei campi di concentramento.
L’ingente sofferenza prodotta, non è tanto nella necessità di lavorare, quanto nell’obbligo di faticare (non solo fisicamente) inutilmente.
I metodi esecutivi nei luoghi di lavoro sono gli stessi della guerra. Le tacite violenze consumate in un “pacifico” ufficio, sono analoghe alle torture inflitte nei lager.
Solo che negli uffici non si realizzano opere, non si accede nemmeno alla possibilità di segnare la propria unicità in un oggetto, è questo che rende velenosa l’aria. Persino il fabbro di Auschwitz aveva una chance ed è ancora lì che ci parla.
Invece, proprio attraverso l’opera, il lavoro può essere esperienza di crescita. Il risultato della trasformazione ha il potere di formarci e di trasformare anche la relazione vittima-carnefice.
Ogni mattina, quando entro in un luogo di lavoro, con i miei attrezzi del mestiere, mi domando: oggi aumenteranno o diminuiranno le loro sofferenze?
Proprio non lo so, però voglio credere che il lavoro di Liwacz non sia stato inutile e che la sua opera riesca a rendermi veramente un po’ più saggio e libero.